Negli ultimi mesi, il conflitto israelo-palestinese è tornato con forza al centro dell’attenzione internazionale, a causa di una nuova ondata di violenze, della crisi umanitaria senza precedenti che ha travolto Gaza e di un delicato processo di cessate il fuoco in corso. Gli sviluppi recenti non solo hanno ridisegnato l’equilibrio della regione, ma stanno ponendo domande cruciali sul futuro di entrambi i popoli e sull’effettiva possibilità di costruire una pace duratura.
La tregua più recente, raggiunta grazie a una faticosa mediazione internazionale, ha portato alla liberazione di ostaggi israeliani detenuti da Hamas in cambio del rilascio di prigionieri palestinesi. Un gesto che, sebbene accolto con cauto ottimismo, nasconde una realtà molto più complessa. Il cessate il fuoco non è la fine del conflitto, ma solo una pausa, un momento sospeso in cui le ferite – materiali, politiche e umane – restano ancora profondamente aperte.
Nel frattempo, Gaza si trova in una situazione catastrofica. Le stime più recenti parlano di decine di migliaia di vittime, in larga parte civili, e di una distruzione diffusa che ha colpito infrastrutture vitali: ospedali, scuole, strade, impianti elettrici e idrici sono stati gravemente danneggiati o rasi al suolo. L’emergenza alimentare è particolarmente grave: secondo uno studio pubblicato sulla rivista The Lancet, oltre 55.000 bambini soffrono di malnutrizione acuta e il rischio di carestie si fa sempre più concreto in molte aree.
La macchina degli aiuti umanitari, pur attivata, fatica ad operare in modo efficace. I convogli sono spesso rallentati da blocchi, burocrazie o mancanza di garanzie di sicurezza. Le ONG internazionali, così come le Nazioni Unite, continuano a lanciare appelli disperati, sottolineando come la ricostruzione richiederà non solo ingenti risorse economiche, ma anche volontà politica e cooperazione tra attori che oggi appaiono ancora profondamente divisi.
E infatti, se la crisi umanitaria è la ferita più evidente, quella politica non è da meno. A Gaza, Hamas mantiene un controllo formale, ma la sua legittimità agli occhi della popolazione è sempre più incerta. L’Autorità Nazionale Palestinese, confinata principalmente in Cisgiordania, è vista da molti come distante e inefficace, incapace di offrire una risposta credibile né una leadership unitaria per il popolo palestinese. Sul versante israeliano, il governo deve affrontare una crescente pressione interna, tra chi chiede maggiore sicurezza e chi sollecita una risposta più umana alla sofferenza dei civili palestinesi. Al contempo, la scena politica israeliana è attraversata da divisioni profonde e non mancano le spinte verso un inasprimento delle politiche di sicurezza e controllo territoriale.
Sul piano regionale e internazionale, i riflettori restano accesi. Paesi come Egitto, Qatar, Turchia e Stati Uniti hanno avuto un ruolo cruciale nel mediare la tregua, ma ora si trovano a gestire una fase molto più delicata: quella della ricostruzione e della possibile apertura di un nuovo percorso negoziale. L’Europa ha espresso solidarietà alla popolazione civile, promesso aiuti e si è detta pronta a sostenere iniziative di pace. Tuttavia, come spesso accade, la capacità di tradurre le dichiarazioni in azioni concrete dipenderà anche dalla tenuta politica interna ai paesi europei e dalla loro volontà di assumere un ruolo più attivo.
Cosa ci riserva il futuro? Le prospettive, purtroppo, restano incerte. Il cessate il fuoco, benché positivo, è fragile. Tensioni latenti e rivalità profonde minacciano di farlo saltare da un momento all’altro. Anche perché le questioni di fondo — il destino di Gerusalemme, il ritorno dei rifugiati, i confini, la sicurezza, la sovranità — non sono state affrontate. Sono rimaste lì, come macigni nel cuore del conflitto, pronte a riemergere alla prima occasione.
È possibile, dunque, che si entri in una fase di stallo prolungato, con violenze occasionali ma senza un vero processo politico. Oppure che la pressione internazionale, sommata alla gravità della crisi, spinga per la nascita di un’autorità transitoria che gestisca Gaza nel periodo di ricostruzione, magari sotto supervisione internazionale. Un’ipotesi questa, tutt’altro che semplice da realizzare, data la sfiducia reciproca tra Hamas, l’Autorità Palestinese, Israele e gli attori esterni.
Esiste poi un’altra possibilità, più ambiziosa: l’avvio di un nuovo negoziato politico che riprenda, in forma aggiornata, l’idea della soluzione a due stati. Una prospettiva che, al momento, appare lontana, ma che resta per molti l’unica via d’uscita duratura. Il problema è che il tempo sta giocando contro questa ipotesi. L’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, la frammentazione del territorio palestinese, le divisioni interne e la sfiducia tra le parti stanno rendendo sempre più difficile immaginare due entità statali sovrane, contigue e indipendenti.